Autore: Livio Calabresi
Sponsor: Save The Children
L’estate era sempre stata la stagione preferita della piccola Sita. Allo sciogliersi del ghiaccio, una grande mano invisibile dipingeva di verde le colline del suo villaggio, nel sud del lontano Nepal.
Il vento, che soffiava imperioso dalle alte vette dell’Himalaya, quietava il suo gelido respiro; nell’aria, l’odore dei fiori montani sostituiva quello della neve. Allora, mentre gli adulti lavoravano nei campi o sulle terrazze delle risaie, Sita poteva andare a scuola, assieme agli altri bambini del villaggio. C’era sempre molto da imparare e tanti amici con cui giocare.
Quando la giornata arrivava al termine ed il sole fuggiva oltre gli alti picchi ad ovest, Sita aiutava la sua Mamma a preparare la cena e infine, prima di dormire, dava la buonanotte ai suoi giocattoli.
Non erano giocattoli nuovi o costosi: erano delle bambole che Sita stessa aveva confezionato con tutto il suo impegno, usando legnetti e brandelli di stoffa.
Tra tutti i suoi pupazzi ce n’era uno speciale: un leone di pezza a cui lei confidava tutti i suoi pensieri perché, come tutti sanno, i leoni sono molto saggi e proteggono i popoli e i bambini delle montagne.
Eppure, nonostante l’estate fosse una stagione gentile, non lo era mai abbastanza. Il raccolto era scarso e non bastava alla famiglia per sopravvivere. Così, infine, il papà e la mamma non ebbero altra scelta che chiedere un prestito.
Incontrarono degli agenti che diedero loro una grossa somma di denaro, in anticipo; così riuscirono a sfamare e provvedere ai bisogni di Sita e dei suoi fratelli. Ma ora un ingente debito gravava su di loro, in attesa di essere saldato. Fu così che l’intera famiglia, in autunno, dovette viaggiare verso le città a nord, alla disperata ricerca di lavoro.
Sita non ebbe neppure il tempo di salutare i suoi amici, i suoi giocattoli, il suo leone di pezza. Salirono su un vecchio autobus traballante e viaggiarono per ore, fino alla lontana Katmandu.
Sorgevano, nei pressi della città, delle grandi fornaci dove l’argilla veniva impastata e cotta per produrre mattoni.
Luoghi tristi e grigi dove chi non aveva alternative lavorava senza sosta per pagare i propri debiti. Come altri bambini a Katmandu, Sita dovette cominciare a lavorare per aiutare i suoi genitori, scambiando la sua infanzia con una nuova, difficile vita.
Ogni mattina la piccola si svegliava all’alba per andare alla fornace: lì sollevava, trasportava e sistemava mattoni tutto il giorno, fino alla sera. Il lavoro era tremendamente faticoso e pericoloso: non c’erano soste né riposo né giochi né scuola.
Sebbene la legge lo proibisse, erano molti i bambini costretti a lavorare nelle fornaci per aiutare le proprie famiglie in difficoltà, per poche rupie al pezzo.
I mattoni erano pesanti e fragili: a volte cadevano da mani troppo piccole e troppo stanche, frantumandosi. C’erano molti incidenti e spesso i bambini più deboli si ferivano o ammalavano.
Il freddo poi era intenso e pungente, tanto che Sita quasi dimenticò l’estate. Ma ciò che rendeva il lavoro davvero massacrante era l’aria sporca e sempre piena di polvere.
La polvere volava dappertutto e ricopriva ogni cosa: i vestiti, la pelle, i capelli, gli occhi. La polvere era la regina delle fornaci di Katmandu. E poiché non si poteva sfuggire alla polvere, Sita tentò di farsela amica.
Nei rari momenti di riposo, giocava nel fango con gli altri bambini e usò perfino quella polvere argillosa per farsi un giocattolo: impastò e modellò un nuovo amico a forma di leone, che potesse proteggerla e consolarla quando i giorni erano più faticosi e le notti più fredde. Lo chiamò Sin-hò, il leone di polvere.
I mesi passavano lentamente, scanditi solo dai turni di lavoro e dal ruggito della fornace, poiché la polvere oscurava il cielo e il sole, avvolgendo le giornate nel suo manto grigio. Sita era sempre più stanca e cominciò ad ammalarsi: la polvere le irritava la pelle, le bruciava gli occhi, la faceva tossire.
Non importava quanto si lavasse: la polvere tornava sempre. Il suo respiro era sempre più affannato e i suoi piedi erano sempre grigi. Venne un giorno in cui Sita, scossa da una violenta tosse, non riuscì più a lavorare alla fornace.
Rimase nella sua tenda, sola e febbricitante. Fu allora, mentre giaceva tra il sonno e la veglia, scossa dai brividi e dalla tosse, che Sin-hò le parlò.
«Ciao piccola Sita!»
Il suo leone giocattolo le sussurrò un saluto con voce profonda ma delicata. Un suono simile a un soffio che scuote il pulviscolo da un oggetto antico. Aveva forse preso vita? O era solo un’allucinazione dovuta alla febbre?
«Solo le creature di polvere possono udire la mia voce. Se puoi sentirmi, vuol dire che la polvere si sta lentamente impossessando di te. Devi liberarti dal suo incantesimo oppure, presto, diventerai una statua come me».
Le spiegò allora che chiunque vivesse troppo a lungo in quel mondo di polvere e mattoni finiva per divenirne schiavo, fino a trasformarsi in grigia argilla senza vita.
«La tua pelle sta già perdendo il suo colore» – la ammonì – «sui tuoi piedi già si è formato un sottile strato di roccia. Il tuo respiro si fa rauco e la tua voce ha il suono di sassi sgretolati. Devi spezzare l’incantesimo della polvere! Cerca gli uomini dalle vesti rosse!».
Sita avrebbe voluto fare molte altre domande al piccolo leone, ma la febbre e la stanchezza la sopraffecero, e perse conoscenza. Al suo risveglio, al mattino, Sin-hò era tornato a essere un silenzioso pupazzo di argilla, e i suoi ammonimenti le sembrarono poco più che frammenti di sogni, sbiaditi alla luce dell’aurora.
Dopo qualche giorno, si sentì un po’ meglio e riuscì a respirare più liberamente, quindi dovette tornare al lavoro. Presto, tuttavia, le sue condizioni peggiorarono.
Non solo i piedi, ma anche le sue gambe divennero grigie, così come le sue mani. Il petto le bruciava e aveva il naso e la bocca impastati di sottile polvere argillosa. Un incantesimo la stava davvero trasformando in polvere, dentro e fuori.
Provò ad avvisare i suoi genitori e i suoi fratelli del pericolo, della terribile magia della polvere; ma questi si limitarono a scuotere la testa tristemente. Cosa si poteva fare? La sua famiglia era vincolata dal debito e non c’era altro lavoro con cui degli agricoltori potessero guadagnare qualcosa durante l’inverno.
Sita capì che la polvere cominciava a depositarsi anche sui loro cuori, soffocando la speranza. Una sera, nere nubi di tempesta oscurarono il cielo di Katmandu. Forti raffiche di vento soffiavano sulla fornace, trascinando roccia e fumo in grandi vortici, mescolandoli in aria.
Sita cercò di mettersi al riparo, ma la polvere le entrava negli occhi, la soffocava, la stordiva, facendole perdere l’orientamento. Si smarrì in quel turbine grigio e soffocante, che avvolgeva il suo mondo. Le raffiche di vento soffiavano tra le rupi e il frastuono riecheggiava nella fornace, come il ruggito di un leone. Proprio quel pensiero le diede forza, sebbene fosse allo stremo: i leoni proteggono i bambini delle montagne.
Quasi le sembrò, nel mezzo della bufera, di udire la voce di Sin-hò che la chiamava con urgenza.
Tentò di seguire quel richiamo e avanzò alla cieca nel grigio oblio della tempesta: uno, dieci, venti passi, su quel terreno accidentato e ancora oltre, lottando per trovare un riparo. Ma infine la polvere ebbe la meglio: Sita si accucciò a terra coprendosi la testa, finché anche quell’opprimente grigiore svanì e tutto si oscurò.
Quando finalmente aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu un grande leone che la fissava con occhi orgogliosi e le fauci spalancate.
Aveva zampe possenti e una folta criniera di lucida pietra: era una delle statue guardiane poste all’entrata dei santuari della città. Le occorse un po’ di tempo per riscuotersi e capire che non si trovava nella sua tenda. Non sapeva come fosse arrivata fino in città dalla fabbrica di mattoni.
Ricordava solo la furia della tempesta e l’eco della voce di Sin-hò nell’ululare del vento. Si guardò attorno, scuotendosi di dosso la polvere che l’aveva interamente ricoperta, dalle dita dei piedi alle punte dei capelli. Fissò nuovamente il leone di pietra e seguì il suo sguardo: di fronte al tempio sorgeva un edificio da cui provenivano voci di bambini.
Sita si alzò e si avvicinò lentamente alla grande casa. Non si diresse all’entrata principale, ma verso una delle finestre che davano sulla strada. Strofinò il vetro impolverato con la manica della sua maglia, per cercare di sbirciare all’interno.
In una piccola stanza, vide una ragazza dalla maglia rossa che scriveva con un gesso su una lavagna.
C’erano anche dei bambini seduti di fronte a lei. Sita riconobbe alcuni di loro, che lavoravano con lei alla fornace: qualcuno aveva i piedi e le mani grigi per l’incantesimo della polvere.
Ma non tossivano; anzi, sorridevano. Che posto era quello?
Somigliava un po’ alla scuola che Sita frequentava d’estate, nel suo villaggio. Quanto tempo era passato da allora. La ragazza con la maglia rossa disse qualcosa, voltandosi verso la classe, e un coro di voci si alzò in risposta.
Fu allora che vide il viso della piccola Sita, che faceva capolino oltre il vetro sporco. I loro sguardi si incrociarono per un momento e Sita, colta di sorpresa, si allontanò istintivamente dalla finestra. Il cuore le batteva veloce ma volle comunque sporgersi di nuovo per guardare.
Si protese lentamente verso il vetro, allungandosi in punta di piedi e… Proprio in quel momento sentì una mano posarsi sulla spalla e sobbalzò, lasciandosi sfuggire un flebile grido. Era la mamma.
Il suo viso sembrava preoccupato e sollevato al tempo stesso; l’aveva cercata a lungo dopo la tempesta. Insieme tornarono alla loro tenda, lasciandosi alle spalle il tempio, il grande leone di pietra e la casa dei bambini.
Non si voltarono indietro; così non videro la giovane donna dalla maglia rossa che le osservava dall’entrata del misterioso edificio. Nei giorni seguenti Sita tornò a lavorare alla fornace. Per il peso dei mattoni, le facevano male i polsi, le braccia e la schiena.
Forse anche le sue ossa, che scricchiolavano, stavano diventando di polvere. Avrebbe voluto tornare a osservare quell’edificio, ma al calar della sera era sempre troppo stanca e troppo indolenzita. Trovava a stento la forza di mangiare qualcosa e stendersi per dormire, stringendo forte Sin-hò.
Poi accadde qualcosa di inaspettato.
Degli uomini vestiti di rosso vennero a visitare lei e la sua famiglia; tra loro, Sita riconobbe la giovane donna che aveva visto scrivere sulla lavagna. Gli uomini dalle vesti rosse sembravano amichevoli e parlarono a lungo con i suoi genitori: dissero che Sita era troppo giovane per lavorare nella fabbrica di mattoni; che il freddo, il lavoro pesante e l’aria malsana le facevano molto male.
«Una bambina così piccola» – spiegarono – «dovrebbe vivere una vita più spensierata. Dovrebbe poter giocare e andare a scuola. Non solo per la sua salute, ma anche per il suo futuro:»
«Con una buona educazione, da grande, Sita potrà trovare un buon lavoro e non essere costretta a lavorare nelle fabbriche di mattoni».
Sarebbe stato bello: imparare nuove cose, lontano dalla polvere, dal fango e dal fumo.
Ma era davvero possibile? Ora i suoi genitori avevano bisogno di lei, del suo aiuto, del suo lavoro, per far fronte al debito. Mentre gli uomini dalle vesti rosse discutevano con la mamma e il papà, la ragazza si avvicinò a Sita, sorridendole.
«Ciao piccola Sita» – vide il leone di terracotta tra le braccia della bambina – «Come si chiama la tua bambola?»
«Lui è Sin-hò» – rispose Sita, vincendo la timidezza e mostrandolo con orgoglio – «L’ho fatto io. È un leone guardiano e mi protegge».
«È molto bello. E sembra anche forte e feroce» – annuì lei, sfiorando il muso di argilla – «Da cosa ti protegge?» Sita esitò un istante. Poi si avvicinò alla ragazza e le bisbigliò all’orecchio:
«Dall’incantesimo della polvere». La bimba raccontò allora della febbre, del suo sogno, della magia che trasformava ogni cosa in polvere; degli ammonimenti di Sin-hò, della tempesta e di come aveva trovato la casa degli uomini vestiti di rosso. Purtroppo, neppure lei sapeva come spezzare quel sortilegio: la polvere era troppo potente nelle fornaci di Katmandu.
Tuttavia, se voleva, Sita poteva venire a trovarla nella casa: lì avrebbe potuto giocare e studiare, assieme agli altri bambini. Così, almeno per un po’ di tempo, avrebbe potuto dimenticare la fornace, i mattoni e la polvere. «Vorrei poter fare di più» – disse infine la ragazza, quando gli uomini dalle vesti rosse se ne andarono – «e aiutarti contro l’incantesimo della polvere».
La giovane donna la ascoltò, con una strana espressione sul volto, preoccupata e commossa.
Sita rifletté per un momento osservando il suo pupazzo di terracotta, con i piccoli occhi fissi in quelli di argilla.
«Sin-hò è qui con me» – sussurrò infine scrollando le spalle – «Mi proteggerà, anche se alla fine mi trasformerò in una creatura di polvere. Lui è molto saggio e mi ha detto di cercare gli uomini dalle vesti rosse. Forse vuole che voi raccontiate a tutti di questa terribile magia».
«Le persone nel mondo non credono più alla magia, piccola Sita» – la giovane donna aveva le lacrime agli occhi – «Forse non ci crederanno».
«Questo è il potere più oscuro dell’incantesimo» – nella voce della bambina risuonava ora la saggezza di un leone guardiano, come l’eco di un’antica sofferenza – «La polvere copre e nasconde ogni cosa, anche la verità. E vola nel vento, dalle cime del Nepal, in ogni luogo. La polvere copre la nostra pelle e i nostri respiri; le nostre vite e le nostre storie».
Quella notte la tosse si fece più acuta e la febbre tornò. Rigirandosi affannosamente tra i frammenti di un sonno agitato, Sita incontrò di nuovo Sin-hò.
«Sei stata molto coraggiosa, piccola Sita» – le sorrise con il piccolo muso di argilla – «Hai trovato gli uomini dalle vesti rosse».
«Sì» – nel sogno il suo respiro era più libero e la voce più limpida – «Ma neppure loro possono spezzare l’incantesimo della polvere».
«Non da soli» – attorno al leone di terracotta, il buio della notte si sciolse, come neve all’arrivo della bella stagione – «Molti altri possono aiutarli, se sapranno di questo pericolo. Aiutare i bambini del Nepal a sfuggire alla magia che li trasforma in statue di argilla».
«E se non ci crederanno?»
«La polvere non è solo la regina delle fornaci di Katmandu» – il leone la prese per mano.
Il freddo era sparito e Sita non rabbrividiva più – «La polvere può ricoprire anche cuori molto lontani, e renderli duri e aridi come terracotta. La polvere può entrare negli occhi del mondo e accecarli, così che distolgano lo sguardo dalle cime del Nepal. Ma non rinunciare alla speranza, piccola Sita. Non senti? L’estate alla fine arriva sempre, anche per le creature di polvere».
Nel vento, Sita riusciva ora a sentire il profumo dei fiori montani, non più soffocato dall’odore della polvere.
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